"Sette strade partono dell'albero della vita. La prima non è la strada dell'uomo, la seconda non è mai stata tracciata, la terza si perde fra le nebbie del fiume, la quarta è del tutto vietata, la quinta non porta da nessuna parte, la sesta forse inizia ma non finisce, la settima nessuno sa se esista. Eppure, figlio, ti dico: se sei un uomo prendi il bastone e parti"
Ieri Il mio amico Lello pubblica questo proverbio malgascio e io, che avevo una giornata di relativo silenzio, me lo son fatto risuonare dentro.
Penso: non ci sono strade per me. Non adesso. Però è giusto e naturale che uno prenda e parta comunque. E infatti anche se non ti chiedi più dove stai andando, tu vai.
La vita ti porta, o almeno speri.
Però c'è sempre qualche cecchino alla finestra pronto a rimproverarti. A dirti che no, non si fa così. Che tu non vai bene per niente. E a metterti in crisi al punto che ti viene il dubbio di essere in viaggio.
E vacilli.
Ma tu sotto, sotto, sei un po' pazza e ti fidi, ti fidi a intuito, perchè non hai alcun ragionevole motivo di fidarti.
Il tuo fidarti ti dice imperterrito che qualcosa accadrà, che una strada si farà e che tu devi solo andare facendo attenzione ad essere ciò che senti, senza perdere manco un attimo a dare retta a quello che vorresti essere.
Si è un po' che stai andando senza meta e senza più sapere dove dormirai o ti sveglierai. Ti guardano come tu venissi da Marte, macchisenefrega. Almeno vai.
Te ne accorgi dopo che hai passato un bel po' di tempo a scrivere parole inutili, a confrontarti con posizioni lontane dal tuo modo di pensare, lontane da ciò che sei o almeno da ciò che vorresti essere.
E pensi: "Ma perché aspetto che siano gli altri a guardarmi e vedermi per ciò che sono. E ci soffro. E vorrei benedizioni ... Io mi vedo. Imperfetta e belissima come sono. E non è poco".
Perchè poi ce la cantiamo e ce la suoniamo tanto...ma cosa vorremmo essere, come vorremmo vivere, dove vorremmo andare su per giù lo sappiamo tutti.
E lo sappiamo abbastanza bene da potersi lamentare di essere altrove.
E c'è di peggio: c'è anche chi si lamenta per anni di non essere ciò che vuole, e poi si accorge che invece avrebbe potuto benissimo essere ma avuto paura, se l'è fatta piacere, se l'è fatta andar bene per comodità, piccineria, immaturità, mancanza di palle.
Poi un bel giorno, quando davvero hai le spalle al muro e non hai scelta, ti volti indietro e piangi sul tempo perduto e sul latte versato.
Verrebbe voglia di prendersi a calci in culo da soli, se solo ne fossimo capaci. Ma forse, il culo, sarebbe un posto sbagliato dove poggiare quei benedetti piedi che hanno sopportato tutto il tuo mondo così autoreferenziale, indisponibile al confronto anche con lo specchio del tuo cesso, pesante e noioso e insicuro e perennemente, falsamente combattuto. Orgoglioso, permaloso, arrogante.
Combattere contro se stessi, la propria indole, la propria persona, il proprio istinto.
Sembra diventato uno sport, anzi, una moda. Forse la più diffusa.
Sono bionda e voglio esser mora, sono grassa e voglio esser magra, soffro di claustrofobia e mi chiudo in un'ascensore...e via andare... giusto per vedere l'efffetto che fa.
Forse nessuno ci mette più alla prova per insegnare in primis a noi stessi quanto siamo forti. E allora le prove di forza ce le imponiamo da soli.
Forse memori di una radicata cultura che ci ha insegnato che per vivere bisogna soffrire, siamo spinti a una sorta di moderno ascetismo fatto di regole auto-inventate e contro-la-nostra-personalissima-natura. Un ascetismo che non ci porta da nessuna parte ma almeno ci impone un po' di privazioni inutili e sofferenze ancor più inutili.
Il tutto in nome di "espiazioni" che suonano, se non altro, strane. Che ci rendono malati. Presupponenti.
Già: "perchè io non amo perchè non voglio far soffrire chi mi ama; io non voglio far del male a chi dorme con me, io devo dimostrare a me stesso che non sono schiavo di passioni e desideri, io devo fare vedere le mie virtù".
Manco fossi dio, così potente di far godere o soffrire il resto del mondo, deciderne destini e giornate, liberare me stesso e gli altri, donare paradisi e inferni.
E che palle!
Disorientati dentro le piccole mura, delle nostre piccole case, delle nostre piccole menti, dei nostri piccoli computer collegati all'universo.
Che sia una sorta di mutazione genetica di natura sociale?
In fin dei conti 100 anni fa era tutto più chiaro: o eri ricco o eri povero, o lavoravi o campavi di rendita, o facevi peccati o eri timorato di dio. Ogni cosa era dicotomicamente al suo posto.
Ora invece è tutto possibile ma in maniera così plateale e pubblica che almeno nel privato bisogna darsi costrizioni: ora si può sia esser santi che esser eretici, sia esser preti che esser pedofili, sia esser presidenti del consiglio che sfruttatori di prostituzione minorile e quindi le regole sono più fluide, indefinite, impalpabili, interpretabili.
Nessuno rispetta più neppure la Costituzione, figuriamoci come poter campare da sera a mattina e poi da mattina a sera senza un po' "indicazioni".
E noi poveri sbandati davanti a tutta questa libertà cosa ci inventiamo?
Ci inventiamo le regole contro di noi, ciascuno le sue, e ce ne freghiamo di quelle che già ci sono e che magari servono a tutti.
Ce le inventiamo su misura, così per rendere tutto più complicato e potersi costruire l'alibi perfetto per non essere. Non essere = non andare.
Ci sono sette strade che partono dall'albero della vita, non si sa manco se esistono.
Ma abbiamo perduto la curiosità di partire, per la paura che abbiamo, paura di sbagliare, paura di scoprire, paura di essere, paura di vivere.
E così ci inventiamo un'altra strada, l'unica che non parte dall'albero della vita. L'unica che non ci rende uomini ma fantasmi. Quella che non ti fa muovere.
Non ti muovi, non vivi, non ami, non sogni.
Ah, nessuno potrà dirti che hai sbagliato, ma quando hai vissuto? Quando ti sei sporcato le mani? Quando hai rischiato? Quando hai davvero amato la vita pur terribile che sia?
Sei già praticamente morto e ti fingi vivo e nel frattempo canti la tua falsa felicità al mondo perchè hai così tanta paura di morire che vuoi mostrare a tutti che non sei già cadavere.
E invece lo sei. E puzzi. E questo lo senti.
Poi ti lamenti.
Ti lamenti di non poter mangiare il gelato e ti lamenti di tutto quello che ti sei imposto e ti sei scelto. Ti lamenti a voce ma anche coi fatti, castrandoti, che è pure peggio.
Hai anche l'ardire di non sopportare chi si lamenta, magari a ragione, e lo tacci di essere un rompiballe.
Così non fai mai ciò che vorresti. Ti reprimi. Diventi altro. Ti piace ciò che ti annoia. Sei feice di ciò che ti fa triste. E te la canti che manco a sanremo...tutto cuore, amore. sole, faccine che ridono, faccine che mandano baci, faccine a culo...
Condividi tutto ma senza l'anima, senza la verità, senza fiducia e quindi non condividi niente.
E giù che ti lamenti anche di non avere complici che ti possano alleggerire la vita, di non avere madri capaci di amarti, di non avere futuri da immaginare.
Il tuo peggior complice, la tua più terribile madre sei tu. Il tuo peggior futuro te lo stai imponendo.
Non è vero e non è mai stato vero e non sarà mai vero che si può tutto.
Però si può e si deve essere e pian piano farsi una strada. La nostra. L'unica per noi.
Nella condivisone vera e nella fiducia profonda. Perché anche la tanto decantata bellezza della solitudine, per quanto romantica sia l'idea della medesima, è una bugia.
La solitudine è bella se piena e scelta e condivisa.
Altrimenti è una sfida, l'ennesima condizione che l'esistere ci impone di superare. E va superata.
Uh...basta, quanti pensieri...mica mi stancherò?
Fiducia, fidarsi, affidarsi: eppure, figlio, ti dico: se sei un uomo prendi il bastone e parti