domenica 17 agosto 2014

La corsa, Il Palio e l'anima (in questo caso la mia)

(La bella foto è dell'amico Riccardo Pallassini)
Avvertenza: chi non è senese potrebbe non capire una parola di quello che vado a scrivere. Ma questa pagina riguarda davvero qualcosa di molto personale. Che ha a che fare con l’anima. La mia.

Oggi a Siena è il 17 agosto, ovvero il giorno che segue il Palio dell’Assunta. Dopo quattro giorni di tensione, attesa e speranze, ieri sera la corsa dei cavalli che si è disputata in Piazza del Campo ha consacrato regina la Contrada della Civetta.

Ovviamente in città sono settimane che si parla di cavalli, fantini e strategie paliesche, secondo un rituale che si ripete da sempre. E oggi si sprecano i commenti, i “se” e i “ma” di cui son piene le fosse di quelli che sapevano tutto da prima, da sempre, da mai.

I media rendono omaggio alla Civetta mentre esperti ed espertoni sfornano pagelle più o meno ad minchiam per fantini e Contrade; insomma, dai salotti televisivi ai bar, ovunque si parla di Palio e - manco a dirlo - ovunque c’è chi è pronto a giurare che “io lo avevo detto”.

Il Palio inteso come corsa lo ha vinto la Civetta. Senza se e senza ma. E, per onor del vero, io sono tra quelli che no, non l’avevo detto.

Qui però vorrei parlare di un altro aspetto del Palio. Quello che dà significato a quei tre giri a perdifiato e che non finisce mai di stupirmi. Quello che dà senso alle emozioni vere e non alle baracconate da circo medrano.
Quello che dà prospettiva e speranza al futuro di una città che sa rigenerarsi da sempre, grazie a una Festa che è più di una Festa. E’ celebrazione collettiva di un rito. Enigma. Continuo conoscersi e ri-conoscersi in un qualcosa che è più grande del sé.

Torno ad ieri.

Sono tanti anni che ho l’onore e il privilegio di vestire la comparsa della mia Contrada, la Chiocciola, un gruppo di uomini che viene chiamato ad indossare vesti che trovano le loro origini nell’antichità e che in ogni dettaglio restituiscono simbolicamente un valore, un gesto, un messaggio.
(La comparsa si veste nelle primissime ore del pomeriggio del giorno del Palio. E infatti alle 13,15 puntuale mi sono presentata in Contrada)
Nella comparsa, tra i figuranti in “maggiore evidenza” (lo scrivo per gli amici che non sono senesi e che sono arrivati a leggere fin qui) ci sono gli alfieri (i due ragazzi che “giocano” con la bandiera proponendo un antico linguaggio militare) e il tamburino (dotato dello strumento che scandisce il passo con cui si annuncia l’arrivo della Contrada).

E da qui, amici non senesi, forse non ci capirete più niente.

Per Alessandro e Andrea (vent'anni, poco più forse) ieri era uno di quei giorni che resterà indimenticabile a prescindere. Per loro sarebbe stata la prima esperienza da “alfieri di piazza”. Come tutti quelli a cui la Contrada affida questo compito, si erano allenati per mesi così da onorarlo al meglio. Avevano preparato anche una sbandierata difficile. Immaginabile la loro tensione.

Arrivo e incrocio lo sguardo di Alessandro. I suoi occhi parlano più del suo pallore. E’ addirittura più pallido di me. Sorrido. “Iniziamo dalla calzamaglia vai”.
Da lì è stato un susseguirsi di dettagli. 
La camicia di Ale stringeva al collo. L’abbiamo cambiata. E così l’ha cambiata anche Andrea. Poi ad entrambi è venuto il dubbio che quella camicia (che comunque arrivava fino al polpaccio), potesse uscire dalla calzamaglia. Rassicurati i ragazzi che questo evento sarebbe stato impossibile, ecco un nuovo dilemma: con che si tiene su la calzamaglia in cotone, bretelle o cintura? Per me non ci sono dubbi: cintura. I due “novizi” si fidano e mi danno ascolto. Andrea intanto si sistema le scarpe. 
Sembrerebbe un’amena chiacchierata su vestimenti, ma in sostanza si tratta di placare un po’ l’ansia, di trasmettersi reciprocamente la giusta fiducia.

Andrea e Alessandro provano qualche movimento e finalmente arriva il momento di indossare la parte in velluto della montura, ovvero quella che fa dell’alfiere, l’alfiere di piazza.

Alessandro trema, senza accorgersene credo. Parla veloce, sottovoce e non lo capisco. Mi chiede anche di essere complice di un suo piccolo segreto. Qualcosa che riguarda uno scherzo con Andrea: non lo so ma accetto, mi basta di vederlo un po’ sereno. Mi ringrazia. Non saprò mai di cosa. Ma va benissimo così. Ormai l’emozione non è più così impalpabile. Faccio fatica a chiudere i bottoni del suo corpetto. E sento il suo cuore battere forte.

Andrea invece è “ineffabile” ha lo sguardo che sfugge; chiede “va bene questo?”, “va bene quest’altro?” e mostra bottoni, dettagli della camicia, piccole pieghe delle calze, ma osserva altrove. Si, va tutto bene. Poi gli faccio scivolare le braccia nella parte superiore della montura ma mi è difficile intrecciare il cordoncino che tiene insieme il retro: non riesce a stare fermo, “balletta”.

Frattanto Fausto, il tamburino, guarda e aspetta paziente il suo turno con calzamaglia e camicia già addosso… Per lui non è la prima volta. Forse per questo sembra più tranquillo lo guardo, sorride e mi fa: “Ma da me quando ci vieni?”. “Ora, ora. Abbi pazienza”.

Lascio i due alfieri alle donne che devono sistemargli le parrucche, agli abbracci dei familiari, degli amici, alle parole degli ultimi momenti, alle battute per sdrammatizzare, alle fotografie.

Poi vado da Fausto. Lì c’è anche Nicola che mi aiuta. E mentre gli mostra come mettere la cintura che sosterrà il tamburo, io gli faccio indossare la montura.

In quel momento arriva Paola. Paola di Bano. Bano che se n’è andato poche ore prima, Bano che ha lasciato la chiesa dove tra qualche minuto andremo con la comparsa e il popolo a benedire il cavallo. Bano che ha insegnato a tutti quei ragazzi a suonare il tamburo. Bano. 
L’abbraccio.
“Mi hanno detto i ragazzi di venire, ci sono sempre venuta”. E lo dice, con imbarazzo, come chi sembra volersi giustificare.
La guardo e sono io che adesso ho bisogno di coraggio per ricacciare le lacrime in fondo agli occhi. Le affido i lacci che devono chiudere la montura di Fausto e le dico: “dai, finisci tu. Sei arrivata proprio al momento giusto, è il tamburino no?”

La vita vince sempre sulla morte.

Pochi minuti ancora, ed è tutto pronto. I ragazzi sono bellissimi ed emozionatissimi. Li bacio. “Sonia, grazie di tutto”. “Oh. Grazie Sonina. Grazie, grazie davvero”. “Grazie di tutto”. Ed è un continuo.
A quel punto la tenerezza mi sale agli occhi. Quei ragazzini così giovani e così sinceri, sono tanto belli nella loro emozione che in quel momento riesci a cogliere l’essenza più vera di questa città.

Ora come lo potresti spiegare a uno che pensa che il Palio sia una corsa di cavalli, il tumulto di emozioni che attraversano e scombinano cuori e teste in giornate come queste?

Come glielo racconti a uno che ti chiede cos'è la Contrada il pallore di Alessandro, o lo sguardo di Andrea nell'affrontare un’emozione tanto grande per la prima volta?

Come lo racconti che Paola di Bano proprio ieri, ha vestito il tamburino di piazza della Chiocciola e Fausto, quel tamburo, lo ha suonato mettendoci dentro mille e mille voci di chiocciolini?

Se c’è una cosa che davvero mi fa rabbia è che non riesco proprio a trovare parole adatte a restituire certe emozioni, certi significati profondi.

Perché questa cosa qui è come l’amore. Non si spiega né si racconta. Si vive. E si è grati perché la si può vivere.

E bisognerebbe anche essere molto bravi a difenderla.
Talvolta (forse anche più che talvolta) anche da noi stessi.