sabato 26 novembre 2011

Quando l'amore è birra che diventa vino (Cristobal - Devendra Banhart)

Una sera dopo il lavoro si erano incontrati per caso per strada, come altre cento volte. Si salutarono un attimo. Era estate e Lui aveva in mano una birra in un bicchiere di plastica.
Lei lo guardò e gli disse: "ma che razza di schifezza bevi?".
"Questo passa il convento" aveva risposto Lui e aveva aggiunto "offri tu, vediamo cosa proponi".
"Ok, lo faremo, ma non stasera, e sarà perlomeno vino".
Infatti quella sera era già molto tardi. 
Lui era in compagnia, Lei era di corsa.

Facevano lo stesso lavoro anche se in due aziende diverse e avevano due vite molto diverse. 
Lei era molto più "vecchia" di Lui. Quasi 15 anni e per questo non frequentavano le stesse "compagnie". Tuttavia non era difficile incontrarsi per strada in quella piccola città. Ma ogni volta rimandavano l'appuntamento e così l'estate finì e la famosa birra non venne mai bevuta come del resto il vino.
Lei aveva sempre da fare. Lui pure.

Poi Lui era sparito. Era stato lontano per un bel po'. Aveva lavorato per circa 6 mesi e forse di più all'estero e quando era rientrato si ricordava ancora della bevuta in sospeso. Ma l'estate era un bel pezzo avanti e i loro "giri" erano ancora molto diversi.

Così si vedevano, e si promettevano un incontro ma era tutto un bla bla fatto di:
"Si dai, facciamo la prossima settimana";  "Ok, se non ce la faccio ti chiamo lunedì";  "No stasera ho da fare"; "No domani vedo il mio moroso"; "Ebbè tengo famiglia, stasera non ce la faccio, dopo domani?"
Erano d'accordo solo su una cosa: quell'incontro e quella chiacchierata dovevano avvenire di sera, magari sul tardi, in tutto relax.

Intanto erano trascorsi altri 3 o 4 mesi. Ormai faceva freddo. E i locali di quella piccola città non tenevano più i tavoli all'aperto.
Nel frattempo, in quei fugaci incontri per strada, Lui le aveva raccontato che aveva sviluppato un progetto e voleva un consiglio da Lei. All'ennesimo rinvio, Lui si mostrò quasi offeso.
Lei allora fece in modo di lasciarsi una sera libera.
Appuntamento a casa di Lui; niente birra, solo un po' vino. Bianco.
"Però guarda - precisò Lei - prima delle 22 non ce la faccio. Magari porto un po' di pizza".
"Di pizza non se ne parla - aveva ribattuto Lui - ti faccio mangiare io".
Lei aveva sorriso. Pur conoscendolo poco, come cuoco gli dava fiducia.

E infatti la cena era buonissima. Non solo buona, ma divertente. Interessante. Lui ragionava bene.
C'era musica dappertutto in quella piccola casa accogliente.
E poi parlare di quel progetto la rese entusiasta.
Fecero programmi.
Sfogliarono libri e fotografie, E poesie. E ricordi di conoscenti comuni.
Parlarono di viaggi e di ancora di poesia.
Le cose tristi e pesanti della loro vita rimasero fuori della porta. Risero un sacco.
Mentre passava il tempo si rendevano conto che di tempo ne avevano buttato forse troppo con tutti quei rinvii. Ma alla fine era bello anche così.

La musica ad un certo punto si introdusse tra le loro parole: "Come fai ad avere questo pezzo? E' uno dei miei preferiti" disse Lei.

Fu quello il momento perfetto perché Lui la baciasse.
E smise di baciarla solo per dirle che erano tanti mesi che aspettava di farlo.
Sparì tutto: la gente, gli amori, la luce, le risa, l'età, il vino, il lavoro, gli impegni, il rumore della strada.

In quella stanza rimasero loro due, la musica, la tenerezza e la passione, fino al mattino, quando arrivò il caffè.
Ma nessuno dei due dopo l'alba di quel giorno andò a lavorare. 
C'era da capire, ma non c'era niente da spiegare. E non c'erano neppure parole da cercare, perché era stato tutto naturale, tutto semplice.

Così naturale che nei loro sms non c'erano domande tipo "dove sei? che fai? quando vieni?" ma parole rubate ai poeti. Loro si capivano così.

Lui preparò per Lei tante altre tavole apparecchiate di musica e poesia. E ogni volta un vino diverso.
Per la birra chissà, forse avrebbero aspettato l'estate.


Per l'anima / 16

Sei la mia schiavitù sei la mia libertà

Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
sei la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d'estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro.

Nazim Hikmet

venerdì 18 novembre 2011

***caramelle

Sono giorni di un'irrequieta calma apparente.
Sarà la stanchezza, sarà il freddo che è arrivato come si deve, saranno i cambiamenti del cielo che diventa autunnale. Alla fine dalla bocca escono le nuvolette di fumo e ti accorgi che respiri. 
A un passo diverso, forse più lento.
Hai sempre mille cose da fare, hai sempre mille diavoli al culo.
Però hai un ritmo diverso nel cuore.

C'è una pace precaria e obliqua. Fatta di voglia di "non confondersi più", come dicevano i miei vecchi.
E infatti certe battaglie non ti interessano come prima. 
Certe delusioni che avevano umiliato gratuitamente il tuo esser semplicemente e ingenuamente disponibile, al punto di toglierti e sonno e peso e voglia, son diventate piccole amarezze. Bazzecole, come direbbe Totò.
Tutti hanno fatto le loro scelte e nessuno ha perso un attimo a pensare a te, a cosa potevi pensare o vivere, nessuno ha fatto un passo indietro, o semplicemente chiesto "che ne pensi"?.
E adesso pensi che va proprio bene così, che era ora di andare oltre.

Non vale mai la pena aspettarsi niente: figuriamoci parole importanti da chi sai che ce l'ha ma non le sa dire. Meglio lasciar correre e dargli sepoltura in quel petto incapace di lasciarsi andare alle emozioni, al vivere, allo scottarsi, al prendersi responsabilità. 
E di conseguenza lasciare che ciascuno si costruisca i suoi alibi per sentirsi giusto, a posto, felice.
E infatti hanno tutti ragione: son tutti giusti e felici, e chissenefrega se un altro sta lì a mangiarsi il fegato per una punizione che non si è proprio meritato.

Nelle nuvolette di fumo che escono dalla bocca all'alba di un mattino che faranno 3 gradi, pensi alla notte che ti è appena inciampata addosso e riguardi come in un film tutto quel tempo che ti sembrava aver sprecato invano.
E invece no.
Hai imparato che tu riesci a voler bene lo stesso, anche a un'idea. E hai imparato che non devi credere a chi dice le cose, farti sedurre dalle parole, ma a chi mostra con fatti concreti i sentimenti che ha in corpo odio o amore che sia. 
Perché al momento della "concretezza" viene fuori  la verità: e se qualcuno ti calpesta pensando sia normale o peggio è consapevolmente disposto a perdere qualcosa di importante, vuol dire che quel qualcosa così importante non era. 
Poi dica quel che dica: erano bugie.
Poi è tardi.
Perché le cose importanti si tengono "come l'oro nel cotone" (e qui i toscani mi comprendono, e tanto basta).

Dite che alla mia età avrei dovuto saperlo bene? Beh, di fatto lo sapevo bene ma ogni volta ci sbatto la testa. Mi fido, è questo il mio limite. Ci credo, è questa la mia cretinaggine. Ma io mi piaccio così. 
Soffro un bel po' ad ogni delusione ma poi passa e mi racconto (con grande presunzione) che chi  - a vario titolo - mi ha avuta accanto e non mi ha più, la differenza la nota. 
Non ho rimpianti.

Ieri durante una riunione, mi hanno offerto una caramella perché la guardavo da un quarto d'ora. Erano le mitiche "Pastiglie Leone" mescolate in una scatolina trasparente. Ne ho presa una a caso e appena messa in bocca ho scoperto che era quella all'anice, che per me è disgustoso.

Talvolta la vita è una scelta sbagliata di caramelle: dopo tanto affanno, dopo tanto dimenarsi, dopo tanto soffrire, adesso che sei riuscita a scartare quella chicca che tanto hai desiderato, immaginato, pre-gustato, hai semplicemente scoperto che non ti piace. Non è colpa della caramella: anzi, poveretta, pensa come deve sentirsi ad essere così inamabile.

Non resta che sputare e rifarsi la bocca.
E non serve poi andare così lontano: è tutto più facile.
Un sorriso che ti sorprende e che non ti aspetteresti mai è già davanti al tuo naso.
E sorride proprio a te. Per intanto, mica per sempre. Si capisce.

S'è fatta l'alba di una notte di quelle che non si dimenticano. Giochi a fare nuvolette di fumo con la bocca e ti senti bambina. E già che ci siamo: in tasca mi son rimaste 4 caramelle che mi piacciono. Farò felice prima me, poi il dentista!

mercoledì 16 novembre 2011

Proposte 1 / Quando la fotografia è vita che si muove. Le immagini sinestetiche di Francesco Ianniello.

dalla mostra "Diario do Brasil" di Francesco Ianniello 

Cos’è la vita? Dove abita la vita? Come si manifesta la vita? Dove si vede, dove si tocca, dove si sente la vita? 
Non ci sono riusciti eserciti di filosofi, poeti, psicanalisti, santoni, figuriamoci se posso rispondere io.
Impossibile dire. Perché la vita è “materia” che si muove e muta di continuo.
Se si guarda appena all’altro ieri si comprende che, per quanto questi tempi di globalizzazione, omologazione, banalizzazione tentino in maniera feroce e violenta di standardizzare anche l’esperienza di un essere che transita per un attimo di eternità su questa terra, stabilendo qual è lo stile con cui uno è condannato a vivere, la vita se ne frega delle menate degli imbroglioni e degli affabulatori. Fa la sua via.
Spietata e bellissima la vita è più forte. Incede maestosa su questo fiume di pelle e si manifesta come e quando vuole trasformandoci in altro.
Fa paura come tutto ciò che è terribile e meraviglioso e ormai non tutti gli uomini sono capaci di starci dentro, coglierne il senso, il transitare, la bellezza, il dolore. Credo questo sia rimasto privilegio degli animali: più presenti dell’uomo, privi di sovrastrutture, naturalmente istintuali.

Ecco perché un occhio come quello di Francesco Ianniello, fotografo per “vocazione necessaria”, diventa un faro per non smarrire la strada, la strada che l’uomo deve seguire per non avere paura di essere vivo.
Giovane, con un’attrezzatura (spiega a me che non sono così ferrata in materia) molto semplice, contrario ai fotoritocchi e alle magie dei computer che tolgono le rughe anche a un volto centenario, Francesco guarda il mondo, ci si cala dentro e qualsiasi cosa fotografi, da un personaggio a un paesaggio, da un bambino a una chiesa, ha la rara capacità di fotografare la vita. La vita in divenire, che si muove.

Non la racconta, non te la sbatte in faccia in maniera eclatante, fa di più: te la disvela, te la mostra poco a poco, te la rende concreta. Le sue immagini sono vere e proprie esperienze sinestetiche puoi annusarle, gustarne il sapore, ascoltarne la musica, puoi sentirne il peso o la leggerezza, il calore o il freddo. 

Colori, geometrie, prospettive, movimenti, tutto crea armonia e ti conquista. Ma non c’è solo questo, non c’è solo perfezione, bravura, capacità tecnica; c’è altro. E devi fermarti. E devi capire. 

Devi capire cos’è che ti si muove dentro e che non puoi semplicemente liquidare come “emozione”. Perché a distanza di giorni è un qualcosa che resta, e chiede, e interroga, e fa pensare.
Tu guardi una foto e non dici “bella questa”, “meglio l’altra”.

Tu guardi una foto e viaggi. Ma non sei solo dentro un’immagine, dentro un ritratto, un paesaggio.
Sei dentro la vita. E te ne accorgi solo dopo, da un dettaglio che a prima vista può apparire trascurabile ma che in realtà è la chiave che ti fa sentire il sangue pulsare nelle vene.

Negli scatti di Ianniello infatti trovi un particolare, anche minimo, che mette in risalto qualcosa che è “fuori dal coro”: è quello l’utero del movimento, dell’onda emotiva.
Eccola lì la vita; e non c’è una foto di Francesco Ianniello che stia ferma, che riesca a evitare che la vita vi entri dentro e ne scombini i contorni.

Un bambino gioca appeso ad un albero: ti immagini un mondo onirico fatto di gioia. E’ caldo, lui sorride, si diverte. E’ tutto armonico, perfetto. Poi ti accorgi che è scalzo; pensi che è libero come ogni bambino dovrebbe essere. Provi felicità. Poi scorgi a terra le sue scarpe. Sono lì che lo aspettano. Perché si capisce che la sua vita non è solo quel gioco, ma va oltre e continua in quelle scarpe. In questa sospensione tra cielo e terra c’è tutto il film di quello che verrà. E tu che guardi cambi il tuo stato d’animo. E senti che la vita, non è più madre ma è matrigna.

Durante una manifestazione popolare religiosa, alcune donne seguono un carro devozionale. Sotto la testa coperta da uno di quei veli neri che solo nell’Ottocento si portavano in chiesa, una signora indossa occhiali da sole di ultima generazione. Il contrasto ti racconta più di mille parole come il nostro delirio di onnipotenza ci faccia immaginare talvolta di essere eterni: sono più di cento anni che quei veli non si portano più e vedere gli occhiali accostati a quel pizzo nero è quasi dissacrante. Potente. Un richiamo ad essere ciò che siamo e metterci dentro i piedi, prendersi la responsabilità, sporcarsi le mani. Perché il nostro tempo non è poi infinito.

Una bimba appare eterea, bellissima, vestita di bianco, uno sguardo intenso curioso e una corona di fiori bianchi intorno alla testa. Ti pare quasi un angelo dipinto da un pittore del Quattrocento. Poi capisci che non è un angelo perché la mano con cui aggiusta i lunghi capelli mossi dal vento mostra le sue piccole unghie laccate di rosso fuoco, un rosso che a quel punto ti fa leggere in un altro modo l’intensità dei suoi occhi che ora diventano più maliziosi che curiosi. E ti arriva una pugnalata al cuore. Perché immagini cosa possa esserle tolto.

Come in un tango le fotografie di Francesco Ianniello dicono di passione e dolore, di amore e ferocia, di giustizia e ingiustizia, di speranza e tristezza, di vita e morte. Sempre in bilico, sempre alla ricerca, sempre irrequieti. Perché forse è proprio vero che chi si ferma è perduto. O comunque chi si contenta, chi si adagia, chi si dimentica che il cuore batte anche se non lo si sente sempre e ogni battito è prezioso, regalato.

La fotografia è arte che cerca di immortalare l’attimo migliore per raccontare un’emozione. Per Francesco Ianniello dicevamo è altro: si tratta di una sorta di “vocazione necessaria”. Non ne può fare a meno, ma soprattutto non può fare a meno di cogliere nei suoi scatti la vita che si muove come musica su uno spartito.

Ogni scatto è film, è una sorta di richiamo al qui e ora, è un invito che va colto.

Francesco Ianniello non ha bisogno di un’apparecchiatura digitale di ultima generazione: bastano i suoi occhi e la sua sensibilità. Il suo saper stare nel flusso della vita con un istinto che - per fortuna - ancora non vuole saperne di esser domato.

Così si spoglia e, senza pudore, ci regala la sua anima perché ciascuno di noi possa coglierne colori ed emozioni e per ricordarci che ogni attimo va rispettato, amato e soprattutto vissuto, fidandosi e affidandosi al tempo che ci è concesso.

Perché solo così possiamo essere un’unica persona fatta di carne e spirito. Perché solo così tutto ciò che è terribile, meraviglioso o semplicemente quotidiano, possa avere un senso pieno e vero.

martedì 8 novembre 2011

Per l'anima / 15

Lamento dell'onesto progressista

Lo so che i preti si masturbano di notte,
Che i gatti fottono,
E le ragazze non sono marmotte,
E tuttavia
Che cosa posso fare
Per aggiustare le cose se son rotte?

Ernest Hemingway

lunedì 7 novembre 2011

RIFLESSIONI 35 / come altrove con le scarpe bagnate

Talvolta la vita ti passa davanti agli occhi come un film.
O forse la morte ti passa davanti agli occhi come un film.
Che poi è lo stesso.

E non capisci se sei nel film, se ti sei addormentato nel bel mezzo della trama e sogni e, soprattutto, se siamo subito dopo i titoli di testa o, magari vicino ai titoli di coda.
Succede qualcosa di inatteso, perché poi tutto quello che succede è inatteso, ma il caso vuole che sia qualcosa di particolarmente forte.
Qualcosa che ti scuote e ti porta fuori dal tuo corpo.
Il tuo corpo è lì e tu sei altrove e lo guardi, lo guardi mentre si muove in una scena, in un contesto.
In un film, appunto.

Oggi stavo guidando, vedo luci di polizia e ambulanze, rallento. Immagino un incidente. La tangenziale a 4 corsie di domenica pomeriggio non è poi così affollata: si stanno giocando le partite.
Piove.
Si procede a senso alternato.
Ecco, tocca alla mia corsia.
Non ci credo.
Un'auto è ferma per strada. Accanto un'ambulanza con poche persone che si muovono. Dalla parte della mezzeria gli uomini della stradale che segnalano chi passa e chi sosta. A terra (sempre dalla parte della mezzeria) un telo verde, bagnato dalla pioggia. Dal telo escono due scarpe lunghe. Da uomo.
A me che arrivo in lieve salita dalla parte più bassa della strada, sotto quel telo mi pare di vedere il Cristo del Mantegna.
La sua auto è grigia, la suola delle sue scarpe è grigia, anche i suoi pantaloni mi paiono grigi, perché si intravedono sotto il telo verde.
Ma cavolo: è a terra, sull'asfalto. Non su una barella.
Va bene è coperto, ma si bagnano le scarpe.
Non è stato un incidente. Più plausibile sia stato un malore. E che ci sia stato ben poco da fare.
Stanno tutti lì e nessuno si muove: solo le auto, la paletta della polizia e la faccia dei poliziotti che tentano sorrisi a chi passa (forse per tranquillizzare i conducenti) mentre fanno scorrere il traffico.

Io ero lì e guidavo, ne sono certa. Ma era come fossi nella strada di sopra a guardare la scena.

La morte talvolta è beffarda.
Non solo ti strappa alla vita, agli affetti, ma ti porta via anche la dignità.
Chiunque fosse lì sotto, era circondato da gente purtroppo impotente, in mezzo alla strada, sotto la pioggia, con le scarpe bagnate, da solo.
Io ho sentito la sua solitudine. Che poi credo sia la solitudine di tutti. La solitudine di chiunque nasce e di chiunque muore.
Ma che solitudine potente che è!
E ci ho messo un bel po' a riprender colore e fiato.
Ho anche pensato che ci sono fini peggiori, ma questo certo non mi ha fatto star meglio.

Nessun pensiero e nessun abbraccio oggi mi avrebbe tolto quel freddo tremendo dalle ossa.
Quella solitudine assoluta.
Poi ho fatto altre cose, ho cercato di pensare ad altre cose. Perché la vita continua. Già...

Ma ancora adesso ho il vuoto dentro e le scarpe bagnate. E sono sola. Anche io su quell'asfalto.

E non ho sonno, anzi ho fame, ho voglia di fare l'amore, ho voglia di ballare: ho voglia di vita, per reazione, per dispetto, per rabbia.

sabato 5 novembre 2011

Confessioni di un'anima che prova a svestirsi

E' difficile per me che non so condividere emozioni, parlare di emozioni.
E' difficile per me che credo fortemente nella sacralità dell'intimità, parlare di intimità.
E' difficile per me parlare di cielo, guardando un cielo di cui non conosco il volto.

Ho trascorso i giorni che finora ho avuto a giocare. 
Mi sono travestita da carnevale anche quando nel cuore c'era la quaresima. 
Perché mi volevano così. E mi sono convinta che doveva essere così!

Ho giocato al gioco più furbetto: quello dell'eterno bambino, il monello che sa come farla franca, che sa che c'è una via d'uscita anche quando non ha studiato la lezione e la professoressa è lì pronta ad interrogare.
Mi sono presa alla leggera, o meglio, ho fatto in modo di mostrare al mondo che io sapevo prendermi alla leggera, lasciando la pesantezza del mio vivere alle mie notti solitarie e insonni.
Notti insonni e solitarie talvolta anche quando il letto era pieno.
Poi c'erano le notti più buie, quelle in cui il letto non lo dividevo con nessuno, né per gioco né per amore.. 

Che poi l'amore...
L'amore tra due anime pronto a diventare legame mi ha sempre fatto paura, perché lì ho visto gli occhi della morte.
Una morte lenta, fatta di polvere quotidiana e sempre più lente abitudini che alla fine tolgono il brivido della scoperta e del mistero, che danno quella tranquillità che per educazione devi definire confortevole tepore ma che in realtà è puro freddo. 
Da lì la voglia di tradire, di andare altrove, di trasgredire. Giocare e ancora giocare. Sentirsi lontani da quanto di più immobile possa esservi.
Per questo ho corso sempre alla ricerca del piacere, lasciando perdere l'amore.

Il piacere ad ogni costo.
Il prendermi quello che di bello capitava, il godermi l'attimo.
Ma non sono cattiva: mi son pentita se ho fatto soffrire qualcuno, e quando è capitato ho sofferto anche io, ma non l'ho dato troppo a vedere. 
La vita è vita. E alla fine ciascuno prende e dà quello che crede. O almeno si dice sia così.
Io, mi sono sempre assolta.

E poi ho messo grande impegno a non raccontare ciò che di doloroso ho vissuto: certo, non ho mai dimenticato i miei morti, ma ho fatto in modo di pensarci solo quando nessuno mi poteva vedere.
Ho più volte sentito salire le lacrime agli occhi e ho fatto una fatica immane per trattenerle e cacciarle indietro.
Non per vergogna, no. Per pudore. Per paura. Non volevo essere rifiutata per questa mia tristezza.
E allora un drink e una musica capace di stordire.

Ho vissuto in un "mondo" che mi voleva sempre allegra, positiva e in forma.
Ho cacciato la mia malinconia negli angoli più bui della mia cassa toracica, ho sempre brindato inneggiando al bicchiere mezzo pieno mentre sapevo di berlo mezzo vuoto e ho sempre nascosto i miei malesseri, le mie malattie, al punto da diventare ipocondriaca e star lontano anche da chi è raffreddato.
Mi infastidisce chi si lamenta, perché porta a galla esattamente ciò che io rifuggo.
Odio chi è afflitto da problemi perché io non voglio badare manco ai miei.

Ma non perché sono egoista. Anzi. Senza farlo vedere partecipo alla vita altrui. Aiuto come posso, ma di nascosto. E lo faccio volentieri ma finché ne ho voglia. 
Perché prima vengo io e io, credetemi, devo "reggere" una parte bella tosta: sono triste e sola e mi presento allegra e piena di compagnia. Ogni giorno un trucco e un inganno.
E guai se qualcuno mi "sgama". Lo caccio come fosse satana. 
Sentirmi sbattere in faccia la verità è per me intollerabile.
Perché la mia verità la so. Ma non la voglio sapere.

Ho paura di mostrarmi, sarebbe un impegno con me stessa troppo ingente. E così "mi racconto" che lo faccio per "riservatezza". 

Sia chiaro: mi turbano anche le emozioni "positive", la bellezza vera. E infatti definisco quasi tutto bello. Perché quando incontro la bellezza che scava dentro, mi trovo a lottare con sospiri che di nuovo cacciano indietro lacrime e brividi che non oso mostrare. 

Non voglio prendermi la responsabilità del fare i conti con la mia essenza. Dovrei dare spiegazioni ed è proprio quello che non voglio. Rinuncio anche a un possibile amore pur di non lasciarmi coinvolgere. Se trovo qualcuno che vorrei provare ad amare mi fermo un attimo prima e lo distruggo, perché sarebbe la mia rovina. E questo non è indolore, ma almeno non mi uccide.

Non voglio soffrire.
Non voglio morire.

Poi, all'improvviso, basta uno stato d'animo collettivo, una tragedia che lascia il mondo senza parole e mi ritrovo a pregare a voce alta. Faccio i conti con la mia sensibilità così accentuata da diventare talvolta lama di coltello. Sbatto la testa contro un malessere che mi porta turbamento, smania, incertezza, dolore.

E' uno strano modo di sentire il mondo, questo mio voler esser sorda.
E' una terribile stagione di bilanci, questa che mi mette spalle al muro con una solitudine che finora è stata voglia di non impegnarsi e adesso diventa paura del futuro.
E' un momento di bilico e incedere incerto, questo che mi fa pensare a un tempo che immagino eterno come avessi 15 anni e che invece così eterno non è più.

Vesto l'abito che non mi si addice. Quello del carnevale ad ogni costo. 
Ma la cosa strana è che non devo nascondere ogni giorno una quaresima.
Alla fine è un tempo bello anche quello che mi scorre adesso dentro i polsi. Se solo ne seguissi il battito regolare senza voler bluffare con me stessa, o voler sembrare quella che non sono più o - peggio - che non sono mai stata...
E quando per un solo attimo riesco ad tirar fuori anche solo un briciolo di quello che davvero mi fa battere il cuore, vedo occhi pieni di meraviglia e stupore che mi guardano. Mi vedono bella.
E mi chiedo...
Quanta strada ancora dovrò fare per accettare la bellezza della mia naturale imperfezione, del mio umore altalenante, delle mie emozioni che necessitano di esprimersi?
Quando imparerò a parlare da uomo con gli uomini e a guardare il cielo dalla terra sulla quale cammino?
Quando saprò conservarmi gioiosa e giocosa come una bambina, pur responsabile come un'adulta.
Quando imparerò ad aver fiducia nel mio amore? Nell'amore?

E mentre son qui in una notte di inattese preghiere a un cielo nero e gonfio che racconto, mi accorgo che inizio a svestirmi.
E non ho poi così freddo.