giovedì 20 agosto 2015

A quel piccolo selvaiolo/a

Cara bambina/o,
ti scrivo anche se ancora non sai cosa vuol dire leggere per raccontarti una storia che tua mamma non ti dirà certo mai, perché - travolta dalle emozioni del momento - non si ricorderà certo di me.

Era il 17 di agosto e erano circa le 18.50.
Io e Valentina, chioccioline, eravamo sedute in un portone tra piazza San Giovanni e Via dei Pellegrini. Piegate in due per l'ansia della prossima corsa. Per la paura della vittoria della nostra avversaria. 
In quei momenti la vista si annebbia a tutti, figuriamoci a chi è già nell'età in cui servono gli occhiali. 
A un certo punto, giro la testa verso Piazza San Giovanni e mi colpisce una persona che ha una forma strana, anzi che cammina in modo strano. Mentre si avvicina la guardo meglio: è una donna, anzi una ragazza, col fazzoletto della Selva al collo. Cammina goffamente e tiene le braccia in basso come a portare un peso. Mi rendo conto solo quando è davanti a me che quel peso è un pancione ormai bello grande. Lo sostiene dal basso. È affaticata.

Valentina la conosce e la saluta.
Io le chiedo a bruciapelo: "Ma mica andrai verso Piazza del Campo? Sennò questa creatura la fai per la strada".
Lei mi risponde: "No, tanto nasce domani. Intanto mi avvicino alla Costarella, mi hanno promesso che lì mi ci mettono uno sgabellino".
Valentina le chiede se è un parto programmato.
"No - risponde la ragazza bella tranquilla - domani finisco il tempo"
Io insisto: "Eh, ma anche se finisci il tempo domani questa pancia mi pare bassa. Può succedere prima o dopo.... Alla Costarella c'è una bella confusione..."
La risposta non offre possibilità di replica: "Questo è il terzo figliolo, quando ho fatto i primi due ha sempre vinto la Selva. Mica posso restare qui!".
"Hai ragione - le dico - se vince la Selva e partorisci sotto il Palco dei Capitani in qualche modo si farà".
E infatti vince la Selva, la ragazza coraggiosa si butta tra la sua gente a festeggiare e io la perdo di vista.
Caro bambino/a di quella selvaiola senza paura, mentre scrivo non so ancora come è andata a finire. Non se sei già al mondo che gridi la tua gioia di esserci ed esser selvaiolo/a, se sei nato/a in Piazza, al Duomo o se ancora sei in procinto di arrivare.
Di certo ti è capitata una grande fortuna. Intanto quella di avere una mamma bella, forte, coraggiosa e piena di passione. Poi di essere nato a Siena, città spesso ingrata ma davvero unica e soprattutto di esser nato/a sotto il segno della vittoria.
Che la vita ti sorrida sempre come adesso.
Benvenuto/a! 


Ps. La mamma in questione è ancora giovane, a occhio altri 2/3 figlioli potrebbe anche farli...


domenica 9 agosto 2015

Viola, la senesitudine, il coraggio della parola libera

PREMESSA: non conosco ancora (se non di vista) Viola Lapisti. Ho scambiato con lei su Facebook alcuni messaggi privati dopo aver letto il suo bel pezzo sulla “senesitudine”.
(qui: https://wunderbarsi.wordpress.com/2015/08/07/della-senesitudine-di-viola-lapisti/)

Cara Viola,
rendo pubblici alcuni miei pensieri, che in parte con te ho già condiviso, perché ne sento l’urgenza. Un’urgenza che nasce dall’aver letto alcuni commenti a mio avviso poco centrati su quanto hai pubblicato ma, soprattutto, sul bisogno di non lasciar morire qui, tra un po' di applausi e pacche sulla spalla, quanto hai avuto il coraggio di confidare.
Perché di coraggio ce ne vuole ad essere senesi, amare profondamente questa città, e scriverne senza esaltarne squilli di chiarine e rullare di tamburi.
Lo stesso coraggio che ha una madre che parla di un difetto del proprio figlio.

La tua riflessione sulla “senesitudine” l’ho trovata illuminata e illuminante, molto lucida e finalmente priva di quella retorica che ogni volta finisce per soffocare ogni parola che si dedica a Siena, ai senesi e al palio in generale.
Grazie.
Hai delineato un bell'affresco di come siamo. E quando qualcuno ha il coraggio di mettersi e/o di metterci davanti a uno specchio, a mio avviso va ringraziato col cuore.
Soprattutto se lo fa senza secondi fini, senza voler portare il carro da una parte o da un’altra per piantarci sopra una bandiera politica, senza voler fare campagne elettorali.
In totale libertà.

A differenza di molti tuoi lettori il pezzo l’ho trovato senza “berebenannà”, semmai intriso di disillusione, frustrazione e di una sorta di “rabbia garbata”.
Quella “rabbia garbata” che tocca di ingoiare a chi (appunto seduto davanti a uno specchio) si trova costretto a guardare e ad accettare anche quello che proprio non gli piace e che magari vorrebbe pure cambiare, ma non ne ha modo, armi, possibilità.

Una “rabbia garbata” che ci tocca di ingoiare probabilmente sin da quando Dante ce lo scrisse:
Or fu già mai gente sì vana come la sanese?
E da qui comincia la tua riflessione.

Mi sono andata a rileggere nei dizionari cosa significhi “vana”. Non c’è dubbio.
Vano (dal latino vanus) vuol dire vuoto, immateriale, irrealizzabile, utopico, infondato, vacuo, effimero, fugace, precario, inutile e se, riferito a persona, che si compiace di sé stesso, delle proprie doti e qualità reali e più spesso presunte, ovvero vanitoso
Per sicurezza ho controllato anche la parola vanità e il dizionario recita:
vanità s. f.(dal lat. vanĭtas -atis, der. di vanus «vano, vuoto»)
Insomma, mica ci tratta bene il caro Dante.
E certo anche lui avrà esagerato perché poi Siena nei secoli non è certo stato solo un insieme di gente boriosa e vanitosa, e qualcosina al mondo l’ha regalata e insegnata in termini di bellezza, sapere e unicità.

I tuoi amici non senesi, parlando di Siena, palio e contrade ti dicono che siamo chiusi, retrogradi, razzisti e via andare: l’elenco è bello lungo e non gradevole. A me spesso dicono (forse perché sono una signora e quindi tagliano corto con le offese) che siamo pazzi. O addirittura non credono a quel che vedono in tv o sentono raccontare.
Lì scatta l’orgoglio. E tante volte ho risposto con fierezza, nel desiderio di affermare un mondo di valori in cui credo e che sento profondamente mio.
Magari spesso mi avranno considerato oltre che pazza anche vana. Me ne rendo conto adesso. Perché quando scrivi che “Il senese si sente un esemplare umano endemicamente orgoglioso, geloso e fiero ed ha anche la presunzione di essere migliore di voi in quanto senese. La presunzione gli deriva dal fatto che gioisce più degli altri, patisce più degli altri, è attaccato alle sue radici più degli altri, vive ogni emozione al suo estremo e nella sua sconvolgente totalità”, io in questo un po’ di vanitas ce la trovo. E questo atteggiamento, lo confesso, l’ho avuto.

Tutto questo per arrivare a dire che, insomma, qualche colpa forse ce l’abbiamo.

Delle tante cose che scrivi però, quello che più mi ha fatto riflettere è il distinguo che fai tra “senesità” e “senesitudine”.

“Senesità – dici - evoca un’accezione positiva, rassicurante, includente. Senesitudine, invece, richiama un infinito bagaglio di tormenti d’animo e di sofferenze interiori alla stregua di solitudine, singletudine, inquietudine…”

Domanda. Dov’è oggi la senesità? Quella che faceva scrivere ad Aldo Cairola (peraltro lontano da Siena) che Siena i suoi Terzi le sue Contrade sono un’unità divisa. Quella che, come dici tu, evoca un’accezione positiva, rassicurante, includente. Quella della solidarietà, del mutuo soccorso. Quella dove io esisto perché esiste il mio avversario che mi dà senso, mi legittima e mi spinge ad accogliere (lui che è diverso da me) tutto ciò che è “diverso”. Quella che mi realizza. Quella che esalta e amplifica la sua bellezza, lasciando spazio alle sue energie e menti migliori. Quella che porta progresso sin dai tempi di Duccio. Quella che mi insegna il rispetto.

Perché anche io (adesso che hai coniato questo termine) conosco bene e da tanto tempo la “senesitudine” uno spleen che si imprime nel cuore, e lascia negli occhi la bellezza con cui sono nata e con la quale morirò.
Una sorta di malinconia dolorosa, che suscita addirittura ilarità quando racconti imperterrita del tuo attaccamento a un luogo che, soprattutto adesso finita l’era degli splendori della “corte dei Borgia” come qualcuno me l’ha definita, si sveglia e si scopre provincia, anzi, paese.
Una rabbia che diventa tormento quando qualcuno ti attacca, perché qui si mettono in “vendita” le tue meraviglie.
E tu fai fatica a ingoiare e difendere, difendere e ingoiare, perché sotto, sotto, lo sai che un po’ di verità in quello che ti dicono qualche volta c’è.
Lo scrivi bene tu: “La nostra senesitudine ci stanca, ci tarpa le ali, ci soffoca con il suo inevitabile provincialismo – o comunque ci sembra che sia così – noi vogliamo viaggiare, noi vogliamo studiare all’Estero, noi vogliamo imparare dagli altri e desideriamo fare tutte le esperienze che la vita è in grado di offrirci”.
Alla mia età non si può più: si resta “senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito” (citando Giorgio Gaber)

E qui si impone un’altra riflessione: cos’è Siena adesso. Eppure che Siena sia una città caratterizzata da uno stile di vita che è un unicum proprio grazie alla sua Festa è vero. Che questa città abbia una sua identità forte è innegabile.
Mica sarà che stiamo vendendo anche questo per vanità, tra fiumi di retorica, luoghi comuni e falso buonismo, senza neppure accorgersene?

Sono d’accordo con te Viola quando dici: “Questa Siena la odiamo e l’amiamo insieme e non ci possiamo fare niente, è così. È la nostra linfa e il nostro veleno. Un perpetuo chiasmo.”
Forse allora sarebbe bene guardarsi a lungo allo specchio che tu ci offri.
Prestare l’orecchio a chi ancora oggi ci taccia di esser gente vana. Rifletterci un attimo e poi tornare, noi per primi con occhi nuovi e un po’ più puri, a guardare il luogo dove viviamo. Quel luogo più intimo e vero, quello che non è nelle gallerie di selfie su facebook, quello che non si mette giacchette su misura per fare passerelle sul tufo e neppure lustrini e paillettes per farsi notare per il corso, magari dietro al cavallo. E poi da chi?
Bisognerebbe tornare noi, per primi, lì dove si fatica da sempre per essere famiglia, così da rimanere famiglia e difenderla quella famiglia. Con la massima disponibilità di aggiungere un posto a tavola se qualcuno arriva perché vuole conoscerci, senza pregiudizi.

La bussola per esser comunità ce l’abbiamo da secoli: è quello che tu chiami “collante che ci tiene ancorati alla realtà e che spesso ci salva, ci riprende per mano e ci riaccompagna a casa”.
Ecco la realtà. Ripartire da lì. La realtà è l’esempio di chi, in silenzio, con 40 gradi all’ombra come oggi, indossa una montura di velluto con orgoglio, oppure trascorre la sua giornata in una cucina a preparare cena per 400 persone. Questo lo si fa non certo per far vetrina. Non lo si fa per vanità. In questo io vedo la senesità come identità, appartenenza, unicità. Quella che non si racconta tanto è chiara, quella che guai a chi ce la tocca. Qui c’è poco di senesitudine. Guardalo quel monturato sudato. Può essere che è pazzo. Ma è pazzo d’amore.
Questo però è frutto dell’assenza di ambiguità, è il risultato della passione più pura e, si ritorna sempre lì, dell’amore.
E non sempre è tutto così chiaro, purtroppo.

Cara Viola, chissà se prima o poi la “senesitudine” (anche in questo caso pronunciata con tanto di sospiro) ovvero la tua e anche mia incapacità di farci capire intrecciata al desiderio di esser comprese verrà mai intuita.

Io ti ringrazio per quello che hai scritto, per la bellezza della tua libertà e per gli spunti che mi hai offerto. È un bel regalo! 
Sonia